La fine di un impero e di un’epoca
Sono trascorsi alcuni giorni dal ricordo della caduta dell’Unione Sovietica, di cui ripercorriamo le fasi in queste righe, avvenuta 30 anni fa. Era la sera di Natale del 1991, quando la bandiera rossa cedette il posto a quella tricolore della Federazione russa, sancendo di fatto la fine di un impero, durato oltre 70 anni e che ha caratterizzato l’intero XX secolo; dalla Prima Guerra Mondiale alle Tesi di Aprile, dai Soviet alla Seconda Guerra Mondiale, dall’apertura dei cancelli di Auschwitz allo Sputnik, dalla politica alla propaganda.
L’ex Presidente Michail Gorbačëv, che lasciò il posto e l’incarico di costruire una Russia dalle ceneri dell’URSS a Boris El’cin, ha ricordato così quei momenti in una riflessione consegnata alla Tass, l’agenzia di stampa ufficiale russa:
“Furono giorni bui per l’Unione Sovietica, per la Russia e anche per me. Ma non avevo il diritto di agire diversamente”. L’ex presidente ha specificato anche perché non usò mai la forza per tentare di tenere insieme l’impero:
“In primo luogo perché avrei smesso di essere me stesso. E poi una decisione del genere avrebbe innescato una guerra civile gravissima e dalle conseguenze imprevedibili. Ero certo che questo scenario dovesse essere evitato a tutti i costi. È certo comunque che il Paese sarebbe potuto sopravvivere anche dopo il tentativo di colpo di stato dell’agosto 1991 come Unione di Stati sovrani. Ma fin dall’inizio abbiamo sottovalutato la portata e la profondità dei problemi nelle relazioni interetniche e nei rapporti tra il centro e le repubbliche. Ci è voluto troppo tempo per capire che l’Unione aveva bisogno di rinnovamento“.
Perestrojka e Glasnost
L’epilogo del 25 dicembre del 1991 era nell’aria da tempo; già a metà anni 80, l’allora presidente Gorbačëv aveva tentato di “svecchiare” la rigida impostazione statalista attraverso riforme volte a liberare l’economia. Si trattava della famosa Perestrojka. Parallelamente, un altro programma – Glasnost – aveva il compito di rinsaldare l’unità interna e il dibattito politico, attenuare la censura, aumentare la libertà di stampa e promuovere l’apertura degli archivi storici.
Il termine Glasnost non era nuovo al popolo sovietico; Lenin, uno dei padri della nascente Unione Sovietica, nel lontano 1918 indicava la glasnost come una tecnica per stimolare la partecipazione delle masse e della necessità di trasparenza e verità sopra ogni cosa.
L’esito fu tuttavia l’opposto, con una netta accelerazione – a posteriori – verso la definitiva disgregazione. L’unità delle 15 Repubbliche sovietiche, di cui si faceva forte la propaganda comunista, si stava infatti sciogliendo come neve al sole.
Il disastro di Chernobyl
Nel 1986, il 26 aprile, durante il tentativo di apertura e trasparenza di Gorbačëv, l’Ucraina e il mondo intero furono scossi da un evento tragico e ancora drammaticamente attuale, per le conseguenze provocate: lo scoppio del reattore 4 della centrale nucleare di Chernobyl. A più di tre decenni da una tragedia che gettò in allarme l’intero continente, gli effetti a lungo termine sulla salute delle popolazioni raggiunte dalla nube radioattiva non sono ancora stati chiariti del tutto.
L’incidente ebbe risonanza mondiale per le devastanti conseguenze sulle vicine popolazioni e per la gestione degli organi statali. La notizia fu inizialmente celata e minimizzata il più possibile ma il panico generale e l’informazione provenienti dalle radio occidentali (come in Estonia) costrinsero il governo centrale a prendere contromisure. Nelle successive settimane furono evacuate circa 300 mila persone nel raggio di 30 km dall’incidente, la Zona di esclusione.
La necessità di riformare e rinnovare l’impero fu così messa da parte per far fronte al disastro. Gli eventi di Chernobyl furono un duro colpo che spazzò via molti progetti, mettendo a nudo davanti al popolo lo stato disastroso del sistema in cui credevano e che reputavano infallibile: la maschera di un governo che teneva in piedi mura di menzogne e bugie, stava iniziando a crollare e dalla catastrofe di Chernobyl buona parte della popolazione comprese che il socialismo era fallito ormai anche sul piano tecnico-scientifico. Con buona pace del programma Perestrojka-Glasnost.
Le grandissime difficoltà ad ammettere la gravità della situazione dell’incidente spinsero i riformisti a dare finalmente alla glasnost’ il forte e deciso significato di “determinazione nel guardare in faccia la verità” che divenne la forza trainante del totale cambiamento, già in atto e che avrebbe distrutto le fondamenta del “vecchio edificio”.
Ultima fase e declino
L’esplosione del reattore scatenò in tutte le zone di influenza comunista preoccupazioni, proteste e ribellione. L’iniziale noncuranza e i tentativi di insabbiamento furono i segnali di un sistema ormai logoro al suo interno, che evidenziava ora profonde differenze socio-politiche tra gli stati appartenenti al Patto di Varsavia.
Dalla primavera del 1989, l’URSS sperimentò per la prima volta il dibattito mediatico, e tenne per la prima volta elezioni multipartitiche. Il “nuovo pensiero” di Mosca inevitabilmente si rifletté anche nell’Europa Orientale: l’URSS, che fino a quel momento aveva soppresso con la forza qualunque dissenso negli Stati satelliti, iniziò a tollerare e anche a incoraggiare le riforme in questi Paesi.
La necessità di rinnovamento non trovò dovunque lo stesso entusiasmo; se Polonia e Ungheria, storicamente più legate alle questioni europee e occidentali, erano le principali promotrici dello svecchiamento statale, altri stati come Bulgaria, Romania, Cecoslovacchia rifiutarono le richieste di riforme caldeggiate da Mosca.
La visita di Gorbačëv alla Repubblica Popolare Cinese il 15 maggio durante la prima rivoluzione del 1989, la protesta di piazza Tienanmen, portò molti giornalisti a Pechino, e i loro ritratti dei dimostranti aiutarono a galvanizzare lo spirito di liberazione tra i popoli dell’Europa dell’Est che stavano guardando.
Polonia e Ungheria: un nuovo vento
Nello stesso anno l’abbandono alla dottrina Brežnev, in favore di un non interventismo politico-militare, spinse Polonia e Ucraina a rompere i legami con la dominazione sovietica. Era l’alba di un vento di rivoluzione che attraversò la maggior parte degli stati membri o sotto l’influenza dell’Unione Sovietica, compresa la Russia due anni dopo.
Il cambiamento iniziò in Polonia con la prima elezione di un governo non comunista in un paese dell’Europa orientale. Il partito Solidarność, ristabilito dopo i divieti e le vicende degli anni 80, vinse con percentuali bulgare. I suoi candidati conquistarono tutti i seggi possibili nella Camera dei deputati della Polonia, e 99 seggi su 100 al Senato. Molti importanti candidati comunisti non ottennero nemmeno il numero minimo di voti per accedere ai seggi a loro riservati.
Il successo polacco spinse altri paesi come l’Ungheria a seguire l’esempio; in una storica seduta dal 16 ottobre al 20 ottobre, il Parlamento adottò una legislazione che prevedeva elezioni parlamentari multipartitiche e l’elezione presidenziale diretta. Questa legislazione trasformò l’Ungheria da Repubblica popolare a Repubblica di Ungheria, assicurando diritti civili e umani e creando una struttura istituzionale.
Il Muro di Berlino
Come tessere di un domino Germania Est, Cecoslovacchia, Bulgaria, Lettonia, Estonia, Lituania e Romania intrapresero la stessa strada di indipendenza dall’Unione Sovietica.
L’apertura delle frontiere da parte dell’Ungheria nell’agosto del 1989 avviò la “fuga” di circa 30 mila tedeschi della Germania Est che, passando per Ungheria e Austria, poterono così entrare nella parte occidentale, irraggiungibile da 28 anni. Si smantellava così la famosa Cortina di Ferro.
Cercando di superare quest’impasse, la politica della Germania Est raggiunse il seguente compromesso: i profughi potevano arrivare in Occidente, ma con l’obbligo di riattraversare inizialmente la frontiera tedesco-orientale. La scelta si rivelò un boomerang fatale per l’immagine stessa della Germania comunista; i treni contenenti i rimpatriati attraversarono senza fermarsi le stazioni tedesco-orientali, tra lo sconcerto dei concittadini.
Le dimostrazioni di massa contro il governo della Germania Est iniziarono al passaggio dei primi treni provenienti dall’Ungheria e dalla Cecoslovacchia, nell’autunno del 1989. La difficile situazione interna fu inizialmente tamponata dalla decisione governativa di rilasciare permessi per viaggiare verso la Germania Ovest; alla decisione presa tuttavia non seguì l’immediata regolamentazione su alcuni punti come la data di attuazione, lasciando aperta la questione.
La mancata pianificazione di questa decisione spinse il 9 novembre 1989 migliaia di berlinesi dell’Est a riversarsi nelle strade, oltrepassando il Muro e rappresentando simbolicamente e concretamente la fine di un’epoca e la nascita di una nuova Germania unita e federale.
Nel 2005, il Parlamento italiano ha indicato il 9 novembre come “giorno della libertà”.
Le Rivoluzioni del 1989
Visto il successo della Germania Est, il popolo Cecoslovacco scese in strada qualche settimana dopo, come ricordato qui, chiedendo riforme e stabilità. Le manifestazioni, represse dalla polizia sovietica, furono la miccia per le successive proteste che rovesciarono il sistema politico durante il periodo natalizio, portando alla nascita di un governo democratico non comunista prima della fine dell’anno.
Il 10 novembre, giorno successivo alla Caduta del Muro, il Partito Comunista Bulgaro rovesciò il leader Živkov con il “benestare” di Mosca. La destituzione non placò la popolazione che continuò a protestare per un processo di democratizzazione. Il risultato di questa azione si vide nel giugno del 1990, con le prime elezioni libere dal 1931.
La necessità di un cambiamento si avvertì anche in Romania, nonostante l’iniziale rielezione per altri cinque anni del leader comunista Nicolae Ceaușescu, nel novembre 1989. La strategia del dittatore era chiara e orientata a evitare i movimenti di rivolta avvenuti negli stati vicini.
La repressione con l’uso della forza dei movimenti di piazza successivi alle notizie provenienti dai paesi vicini fu il punto di non ritorno: la mattina del 22 dicembre le forze armate romene si mossero contro il Comitato Centrale, cercando di catturare Ceaușescu e la moglie, che riuscirono a scappare in elicottero. La loro esecuzione avvenne qualche giorno dopo a seguito di un processo sommario.
Fine di un’era
Le Rivoluzioni del 1989 avevano lasciato importanti cicatrici a Mosca e in tutta l’Unione Sovietica; si verificarono agitazioni nei Paesi baltici per l’auto-determinazione che portarono, prima Lituania, poi l’Estonia e Lettonia a restaurare la loro indipendenza, perduta nel 1944.
Le riforme di Gorbačëv erano fallite nel migliorare l’economia, e la vecchia classe dirigente sovietica si stava completamente spaccando. Una dopo l’altra, le repubbliche costituenti crearono i loro sistemi economici e votarono per subordinare le leggi sovietiche a quelle locali.
La situazione geopolitica nel dicembre 1989 vide la fine della guerra fredda, sancita in un summit a Malta il 3 dicembre 1989. Nel luglio successivo si diede avvio al processo di unificazione della Germania; un anno dopo si scioglievano il Comecon e il Patto di Varsavia.
La mazzata fatale per il Paese fu il colpo di Stato del 19 agosto 1991; nel tentativo di fermare i rapidi cambiamenti del sistema, un gruppo di conservatori guidati da Janaev attuarono il colpo di Stato a Mosca, rovesciando Gorbačëv, inizialmente dichiarato non in grado di governare per motivi di salute.
Il presidente russo Boris El’cin guidò l’esercito e la popolazione contro il colpo di Stato, che dovette soccombere; anche con la sua autorità confermata, Gorbačëv aveva tuttavia perso irrimediabilmente il vecchio potere.
Nel mese di settembre fu riconosciuto il restauro dell’indipendenza ai Paesi baltici, il 1º dicembre l’Ucraina si staccò dall’URSS con un referendum. Il 25 dicembre la bandiera della Russia zarista sostituì quella Rossa, che aveva sventolato per 74 anni sul Cremlino. Il 26 dicembre 1991 l’Unione Sovietica fu definitivamente sciolta.